Quel che sto per scrivere contiene un mucchio di parole, tollerabili solo dai più coraggiosi, temo. ..e da chi mi vuole molto bene. ..e da chi è molto curioso. ..oppure da chi sa già di cosa sto scrivendo perché ne ha già fatta esperienza diretta. Incontro diverse e care persone che mi chiedono di condividere pezzi del mio viaggio in Perù e che ancora attendono i miei tempi. Scrivo perché è il modo che ora mi risulta più semplice, per portar fuori di me ed esprimere sensazioni, emotività e riflessioni di queste settimane. Non riesco a far di meglio. Quando ne parlo la voce mi trema un po’ troppo; quando scrivo tremo un pochino meno. Il dipinto l’ho appena iniziato, per quello occorre ulteriore tempo. Davvero, vorrei comunicare meglio e di più, ma per ora arrivano solo parole scritte. Eccole qui.
Prima ancora che iniziasse, il nostro viaggio si è palesato come un’esperienza tutt’altro che individuale o personale. Io stessa ho deciso ben poco: gli accadimenti tutti intorno a me, le persone che mi vivono accanto, i miei compagni di avventura.. Tutto e tutti hanno scelto e sostenuto la mia partenza, quasi mio malgrado. La mia mente sentiva e portava avanti ad oltranza tutte le resistenze possibili; è stata la strepitosa evidenza di tutti i semafori verdi posti sulla mia strada a mostrarmi quanto la mia anima volesse partire.
Anche per questo motivo sento di dover condividere il condivisibile, oltre per l’esigenza umana di esternare e portare fuori di me tutto il vissuto che scoppia dentro: potrebbe essere una foto, come un pensiero, un disegno, una riflessione, il racconto della bellezza oppure di una difficoltà, la sensazione di uno spirito potente.. sento che tenere dentro, tutto per sé, questo immenso regalo che la Vita mi ha offerto, sia disumano e improponibile, per me. Rimane pur vero che, nonostante il desiderio della condivisione, l’esperienza – soprattutto quella in foresta con gli Scipibo – è talmente personale e soggettiva che risulta difficoltoso persino comunicarla.
Penso sempre più spesso che gli esseri umani siano meravigliosi quando vivono e sentono, ma anche quando elaborano, creano e traducono in vita quotidiana, in parole e in opere d’arte, i molteplici doni che l’esperienza inietta nel sangue.
Mi trovo qui. Mi trovo ad avere il bisogno di elaborare, estrarre, tradurre in quotidianità e in parole ciò che ho vissuto. Si, perché quel che abbiamo vissuto è esperienza, non ipotesi, supposizioni, pensieri altrui, ideologia. Avere il dono di percepire lo spirito potente, definito, risanante e risoluto di una pianta con i diversi sensi a disposizione del mio corpo, con la mia mente e il mio spirito.. beh, è decisamente un’esperienza, nel pieno senso della parola, ed è esperienza diretta, difficilmente descrivibile a parole. Per questo sento utile l’estratto. Perché occorre far tesoro, più che usare parole, per descrivere quella che rimane un’esperienza troppo personale e soggettiva per essere riproducibile e condivisa. Se posso estrarre l’essenza per me più fondante e significativa di questo viaggio, sicuramente la scelta cade sul tema della cosiddetta realtà e di quanto in me questo concetto sia messo, ora, fortemente in discussione. In quei 28 giorni – e oltre – mi è stato dato di osservare e riflettere in continuazione su tutto ciò che è proiezione: ciò che gli altri proiettano su di noi, rubandoci involontariamente autenticità e libertà; tutto ciò che noi proiettiamo su chi abbiamo accanto, rubando involontariamente autenticità e libertà; tutto ciò che in ogni istante proiettiamo fuori di noi e che identifichiamo come la realtà, impedendo così all’universo intero, intorno a noi, di mostrarci la sua bellezza strepitosa e autentica. Inizio a dubitare del concetto di realtà, mi sto impegnando a riconoscere quanto il mio sguardo influenzi, non tanto ciò che vedo, ma ciò che è, nonostante me. Credo sia una riflessione inevitabile, dopo aver fatto l’esperienza con gli sciamani, dopo aver vissuto la Realtà Non Ordinaria di Coscienza (come la definisce Castaneda) e aver sondato spazi nuovi nel mio cervello, porte inconsuete, conversazioni con spiriti così preminenti e comunicanti.
Comprendo molto bene le probabili resistenze di chi arriverà a leggere fin qui ad accogliere le mie parole a riguardo dello spirito di una pianta - che, come affermo, comunica, insegna, guarisce e ama - a considerare queste parole come espressione di una mente sana, lucida e salda. Lo capisco, certo. Rimango consapevole di aver ricevuto il dono di un’esperienza straordinaria – graduale, ripetuta, percepita con i diversi sensi a mia disposizione – per la quale, ad un certo punto, nonostante tutte le mie resistenze intellettuali e viscerali, diviene inconfutabile e non lascia alternative alla resa.
Cito Michael Harner quando, nel suo “La caverna e il cosmo” descrive come Jung si allontani dall’interpretazione psicoanalitica freudiana, secondo cui tutte le esperienze mistiche, comprese quelle degli sciamani, fossero manifestazioni di stati nevrotici e psicotici. Nel suo diario personale – Il libro rosso – Jung descrive come, attraverso una serie di sogni e visioni che lo conducono in un mondo sotterraneo e che gli consentono di vivere esperienze molto simili a quelle sciamaniche, egli venga educato dal profeta Elia, che gli dice: “Noi siamo reali e non dei simboli. Puoi chiamarci simboli con lo stesso diritto con cui puoi chiamare simboli anche i tuoi simili.. ma noi siamo altrettanto reali dei tuoi simboli. Nel chiamarci simboli, non invalidi un bel niente e non risolvi nulla.. noi siamo proprio quel che tu definisci reale”. La nostra cultura occidentale, forte del suo positivismo e della sua abilità nel creare e verificare logica e civilizzazione (!?!) difficilmente accoglie profondamente, come esperienza meritoria di interesse e di condivisione, il vissuto millenario degli sciamani, facilmente considerabile come il frutto di culture tribali, folli, primitive, arretrate.. Harner scrive: “Vi era implicito il presupposto paternalista della superiorità del moderno sapere occidentale e del fatto che i comportamenti nativi fossero soltanto materia di studio, e non certo insegnamenti per l’Occidente”.
Incontrare la foresta amazzonica, le persone che vivono lì da sempre e che spesso non si rendono nemmeno conto di cosa significhi vivere tra i muri delle case e tra le regole e le ideologie occidentali; incontrare di persona gli sciamani che abitualmente, da tempo immemore, per generazioni e fin da bambini dietano le piante e conoscono profondamente i loro effetti, mi ha permesso di valutare l’idea che forse non sia proprio una sciocchezza approcciarsi alla realtà e alle possibilità della nostra coscienza in questo loro modo. La Naturaleza lì è padrona, è immanente, è potente, molto più dei muri delle costruzioni, delle ideologie e dei dogmi occidentali; in Perù e in Amazzonia il Cielo, il Sole, la Luna, le Stelle, i Monti, le Pietre, le Piante, la Terra.. tutto sostiene l’esperienza mistica legata alla bellezza del creato in cui viviamo – su cui noi occidentali continuiamo a sputare ogni giorno, tra l’altro. Don Americo, maestro incontrato nel nostro viaggio, sorridendo affermava che, se Jung fosse nato e vissuto in Perù non avrebbe nemmeno conosciuto l’isteria e il disagio mentale perché là queste condizioni dell’anima non hanno nemmeno lo spazio per esistere. Credo abbia ragione; in Perù abbiamo incontrato e intravisto disagi, ma molto diversi da quello mentale e animico che incontriamo e viviamo nel nostro Occidente. Ormai sappiamo bene tutti che ogni Terra, ogni continente e ogni popolo porta con sé e apporta un’energia differente, con le sue differenti luci e ombre; chi nasce e vive in un determinato territorio inevitabilmente ne è profondamente condizionato. Banale, ma.. diciamocelo.
Desideravo tanto fare esperienza di Realtà Non Ordinaria direttamente in foresta, su quella terra così diversa dalla mia, in quel contesto e tra il Verde Brillante e Onnipresente di quelle piante. ..e così è stato.
Durante le prime cerimonie notturne, assumendo l’Ayahuasca – Pianta Maestra dell’Amazzonia, con proprietà psicotrope – tutto si presentava come rassicurante, o quasi: mi veniva spiegato tutto, chi sono io e chi fosse Lei: lo spirito decisamente femminile che durante le prime cerimonie mi appariva come una Madre Dolcissima. Questa presenza, potente e amante, collegava tutti i puntini della mia vita, quelli più disparati e apparentemente rimossi, ricomponeva la tela dei miei 40 anni, mostrandomi il senso profondo dei miei affetti, delle mie scelte, di alcuni accadimenti; e mentre mi portava tutte queste immagini, mi ripeteva: “Hai capito?.. Hai capito, vero?..”. “Si.. si..”. “Hai capito chi sei? Cosa sei? Tu sei questo. Tutto questo sei tu, non sono io. Io sono Madre e faccio nascere. Sei tu che stai nascendo, non io. Io sono nata milioni di anni fa. Certo, il confine tra me e te è sottile, come nell’utero, il bimbo non sa distinguere sé dalla madre, così è ora, ma questa sei tu ed io sono Madre”. Ciò che vedevo e sentivo era una Madre Dolcissima, immensa, con i capelli lunghi, corvini e il viso senza tempo, bellissimo. Durante le sere successive lo spirito di questa Femmina ha cambiato forma e approccio, verso di me. E’ apparsa come una guaritrice risoluta e apparentemente indifferente della mia fatica e del mio dolore, della mia paura di morire, di impazzire, delle mie resistenze a cederle tutto quel che voleva, parti di me, tutto di me. L’ho insultata, ho odiato la sua – e la mia – femminilità ammaliante, dolce e seducente, mi sono sentita tradita e ingannata dalla sua capacità affabile di portarmi fino lì, dentro quella morte, vera, intensa, tutt'altro che narrata o raccontata e che non avrei mai accettato di incontrare, se avessi saputo prima cosa mi sarebbe aspettato. Lei voleva tutto, era determinata nell’afferrare il mio utero, il mio cuore, la mia mente e, se non fosse stato per Angela, il nostro nocchiero preziosissimo, che con forza e pazienza sosteneva le mie gambe e traduceva ciò che io sentivo come vera e propria fagocitazione e morte, in amore e guarigione; se Angela non mi avesse mostrato, in quel preciso momento, la necessità di abbandonare e lasciar andare nelle mani di quella potente Signora (leggi: Ayahuasca) che intendeva guarire la mia anima, senza se e senza ma, con un’irruenza mai conosciuta in nessun’altra forma di guarigione.. beh, credo che non ce l’avrei fatta. Dopo quella che definivo spontaneamente come la “lunga notte dell’anima” mi sono ritrovata vuota, completamente e – come avrei compreso meglio nei giorni a seguire – con nuovi e rinnovati spazi, dentro me. Gratitudine, beatitudine, pace interiore, quiete profonda.. Lì e in quel momento sapevo come non mai che tutto quello che viene descritto e che ci hanno sempre raccontato sulle esperienze mistiche e animiche.. è tutto vero. È tutto vero, e può scorrere anche nelle mie vene, quasi in modo indisturbato.
Di certo non è la prima volta che sperimento stati di cambiamento profondo e di guarigione. Di certo mai mi era capitato di essere così profondamente scossa e trasformata, per di più.. dallo spirito di una pianta. Come condividevo subito con i miei compagni di viaggio e come ripeto a diverse persone ora: dubito di poter fare nella vita un’esperienza più insolita, per certi versi più assurda e fuori dall'ovvietà, come questa. ..e mai più nulla sarà come prima, tutto è nuovo, tutto è da ricostruire e rinnovare, tutto dentro di me è cambiato e quindi tutto al di fuori sarà diverso. Molte parti, ora, molti pezzi di vita e molto del miosentire è lì, in bella vista, e attende il mio assenso per morire oppure per rinascere in forme nuove. Tutte le infrastrutture, tutto ciò che si trova sopra/sotto/a lato/attorno a ciò che è amore.. puff. Sparito. Volatilizzato. Rimane amore, solo quello, e da lì si riparte. Tutto ciò che era stato proiettato, sulle persone, sui fatti, sulle vicende passate, sui paesaggi della vita.. puff. Ed è proprio qui che voglio tornare, su questo concetto delle proiezioni che continua ad occupare le mie riflessioni. E’ questa la lezione che mi sta insegnando il viaggio in Perù, insieme alla sua Signora.
Come scrive Harner: “Quella scoperta [degli Stati Sciamanici di Coscienza] sfidava radicalmente la mia visione occidentale della realtà e mi spinse a mettermi alla ricerca di una vera conoscenza. (…) Riconoscevo che le rivelazioni che gli sciamani ricevevano quotidianamente [dalle piante] erano molto più autorevoli delle vecchie storie raccontate nella Bibbia”.
Al di là della mia – nemmeno troppo velata – critica all’impalcatura religiosa del nostro viver civile, dopo aver ricevuto il regalo di vedere quanta proiezione ci sia, costantemente, su di me, su chi mi sta accanto e sull’intera esperienza della nostra vita e dei significati che le attribuiamo, non posso non considerare con attenzione e interesse il punto di vista degli sciamani di tutto il mondo, che considerano la realtà visibile negli Stati Non Ordinari di Coscienza come l’unica e vera realtà, mentre ricordano quanto la realtà degli Stati Ordinari di Coscienza sia sostanzialmente falsa, illusoria.
Nel 1992 ero sinceramente e sentitamente cattolica e avevo ancora 17 anni quando è morto improvvisamente il mio carissimo amico Marco, di un anno più di me. Il mio modo di esprimermi e la forma esteriore del mio sentire utilizzava parole diverse da quelle che uso adesso, dopo tanti anni; ma ricordo come fosse ora quanto sentissi, affermassi e scrivessi che la realtà in cui era andato a vivere Marco era in realtà molto più reale e vera della mia. Sapevo – non credevo o speravo – che Marco fosse in qualche modo ancora vivente e sentivo come la sua nuova vita fosse molto più stabile, certa e reale della mia, così transitoria, fragile e passeggera. Tutto questo era già allora sapienza in me, senza aver alcun merito o bollino speciale. Lo sapevo, punto. Infatti, anche allora, è stata la mia intera vita, la mia realtà quotidiana, ad andare in discussione, non la mia fede nella Vita – che a volte necessita di inevitabili passaggi, seppur dolorosi.
Tredici giorni prima di andare a Pucallpa – dove sarebbe iniziata la seconda parte del nostro viaggio, in foresta – io e i miei compagni di viaggio eravamo a Cusco e decidavamo di comune accordo di fare l’esperienza del San Pedro, un cactus dalle capacità psicotrope. Anche gli effetti dell’assunzione di questa pianta sono stati significativi ed estremamente interessanti, nonostante fossero molto più soft e contenuti rispetto all’esperienza fatta con l’assunzione dell’Ayahuasca. Non a caso gli sciamani dell’Amazzonia considerano da sempre l’Ayahuasca come la Pianta Maestra per eccellenza, talmente potente da non poter essere pienamente controllabile da nessuno sciamano al mondo. Nonostante questo, anche assumendo il San Pedro ho ricevuto il regalo di sentire dentro importanti informazioni, parole e significati, sconosciuti fino a quel momento dai labirinti della mia consapevolezza. Le parole che ho sentito dentro sembravano proprio arrivare da Marco, del mio carissimo amico mancato ormai 24 anni fa; molti e per me inequivocabili segni e simboli mi portavano a riconoscere lui e la nostra storia in quelle frasi; a riconoscere tutto ciò che la sua vicenda umana ha significato per me. Dopo parole preliminari e di riconoscimento, ho sentito chiare e scandite nella mente queste altre parole – che sono riuscita per fortuna a scrivere: “E’ arrivato il tempo, Simona, di lasciare andare la paura che non ti fa vedere, che ti annebbia la vita, la vista, la visione. E’ ora di aprire le porte, di far entrare luce, cos’altro hai da temere? Dimentica il dolore e lascialo andare”. Gli chiedevo perché fosse utile assumere sostanze e fare esperienze simili per vivere esperienze di spiritualità e lui rispondeva: “Perché in questo modo manifesti la disponibilità, l’abbandono, il crollo delle resistenze e del controllo. E’ la disponibilità a rinunciare al corpo e alla vita, se servisse.. fino alla morte. Quello che ancora fatichi a comprendere è che si può morire per fare spazio, come ho fatto io. Impara e ricorda che si può morire per fare spazio. E’ ora che tu veda e sappia”.
Ora queste parole sono divenute racconto, sono già state elaborate in buona parte, e anche chi ha letto fino a questo punto può comprendere e collegarne il senso alle mie esperienze vissute i giorni seguenti; ma mentre le sentivo, mentre sentivo parlar di morte dentro di me, la mia coscienza ordinaria non comprendeva proprio nulla, si allarmava e temeva, per la mia vita e per quella dei miei compagni di viaggio! Non capivo affatto il senso e il motivo di sentirmi dire, così profondamente, che dovevo imparare a morire come aveva fatto lui! Ho impiegato giorni per trovare il coraggio di parlarne a Laura e l’ho fatto solo perché sapevo che lei non si sarebbe spaventata e avrebbe spontaneamente compreso il significato simbolico di quelle parole.
Certo, poi ho compreso. Quando poi ho sentito la potenza della Signora della foresta che sembrava volermi morta, senza più cuore, senza più controllo, senza più la possibilità di porre resistenza.. certo che ho capito. Quella di cui parlavano queste voci era la morte dell’Io, la morte del controllo, la morte delle impalcature attorno alla vita, pesanti ed inutili; parlavano della morte che crea il vuoto e che rinnova lo spazio interiore. Non è di questo tempo scrivere di come riempirò l’eventuale spazio rinnovato dentro di me. Finirei per argomentare di quella che è un’esperienza troppo personale e soggettiva, non ripetibile e tutta in fase di elaborazione. Ciò di cui voglio scrivere sono le riflessioni e le domande che emergono, riflessioni credo assolutamente condivisibili e interessanti per molte persone:
E’ più reale, sapiente, profonda ed efficace la voce che parlava alla mia consapevolezza nello stato di Realtà Non Ordinaria di Coscienza, oppure la voce che quotidianamente parla alla mia consapevolezza nello stato di Realtà Ordinaria di Coscienza?
Chi e cosa esprime quelle voci e quei messaggi, così significativi e profondi per le nostre vite?
Ora, la mia personale risposta a queste due domande mi sembra sufficientemente espressa in ciò che ho già scritto. Credo rimanga comunque utile mantenere queste due domande aperte e sempre ben presenti, nel totale rispetto delle risposte di ognuno.
Sto pensando spesso che l’esperienza spirituale, oltre ad essere molto individuale e difficilmente riproducibile, sia molto, molto meno tracciata di qualunque altra esperienza. Tutto sommato gli altri ambiti della nostra vita sono tracciati da sempre – se non altro ben definiti – sin da quando inizia la nostra programmazione alla vita: non è affatto difficile, già al compiere dei 20 anni, sapere perfettamente come ci si debba comportare per essere una figlia ubbidiente, una studentessa diligente, una moglie devota, una madre premurosa, una donna di successo.. lo sappiamo benissimo (idem vale per questi ruoli declinati al maschile, ovviamente). Sappiamo benissimo cosa fare e come esprimerci per essere accolti, ben voluti, oppure rifiutati ed emarginati; conosciamo molto presto il bene e il male, il giusto e lo sbagliato, e chiunque potrebbe seguire per una vita intera il sentiero che altri hanno ideato per lui, senza uscire mai dal seminato, senza perdersi, senza notti oscure dell’anima, senza alcuna deviazione. Nella vita e nei ruoli che interpretiamo ogni giorno, è molto più semplice auto-osservarsi e lasciare che altri osservino il nostro modo di agire e di essere, per confrontarci – eventualmente – per sostenerci a vicenda, suggerirci punti di vista, soluzioni o altro ancora. Questo non accade nell’esperienza spirituale; qui siamo soli, qui la nostra esperienza diviene unica, soggettiva, profondissima e difficilmente ascrivibile a tracciati già definiti. Certo, potremmo sentirci affini a persone del passato o accanto a noi, potremmo riconoscerci nell’esperienza spirituale di figure significative e luminose come Gesù, Madre Teresa, Yogananda, Santa Teresa D’Avila, il Dalai Lama, il nostro santo preferito.. Potremmo anche essere particolarmente fortunati e avere accanto persone che in parte sentono ciò che sentiamo noi – a livello spirituale – e che condividono i valori che emergono da questo sentire. Ma la profondità del vissuto spirituale è nostra e di nessun altro, non è riproducibile e nemmeno totalmente condivisibile. Non esistono tracce già definite del nostro sentiero attraverso la spiritualità e, a meno che non abbiamo accanto un maestro, una persona sapiente che ci conosce in profondità e che ci ama tanto da risvegliarci dai torpori o dalle distrazioni – spesso egoiche – che ci portano fuori dal percorso della nostra anima, allora rimane solo a carico nostro la responsabilità della veglia. Penso sempre più spesso che ognuno di noi debba vegliare sulla propria spiritualità, proprio perché pochissimi, oltre a noi, potrebbero sussurrarci all’orecchio che stiamo perdendo centratura e fondamento di valore. Osservando quanto sia facile e consueto proiettare su altro e altri le nostre responsabilità, il nostro vissuto, le nostre ombre e le nostre luci, probabilmente questo gioco del proiettare risulta ancora più spontaneo e potente nella spiritualità, là dove interiormente, e senza nemmeno dover tanto render conto al mondo intorno a noi, possiamo creare tutti i film che vogliamo e che ci soddisfano.
Fare un’esperienza legata allo spirito, intensa come quella che abbiamo appena vissuto, porta davvero a porsi queste domande, a chiedersi cosa sia reale e cosa non lo sia, cosa sia una nostra proiezione e cosa invece possa considerarsi mediamente riconoscibile e condivisibile. Quando la percezione delle cose e delle persone aumenta, quando i sensi a disposizione avvertono molto più di prima ciò che accade tutto intorno e all’interno, allora i confini tra noi e l’altro, tra noi e il reale davvero si assottigliano e ciò che prima ci sembrava ben definito – io, tu e l’universo intero – ora appare come fluttuante e verosimile, di fatto condizionato, molto spesso decisamente inutile.
Siamo partiti in 5, tra amici carissimi, sorelle e compagni di vita, abbiamo trascorso insieme ognuno dei 28 giorni del viaggio, abbiamo condiviso le stesse esperienze.. eppure potremmo raccontare 5 esperienze spirituali differenti, nonostante avessimo bevuto dagli stessi bicchieri le stesse sostanze psicotrope. Questo accade perché è l’incontro di ognuno di noi con il dato spirito che crea le singole e particolarissime, uniche, esperienze; e nessuno, così come nessun dubbio, potrà portar via ad alcuno esperienze forti come quelle, così pregnanti, così incisive, a livello fisico, emotivo, mentale e spirituale, sulla vita di ogni giorno.
Arriverà lo scettico di turno, colui o colei che forse mai nella vita si concederà l’accesso interiore per esperienze simili e quindi non potrà fare altro che proiettare fuori incredulità e giudizio; oppure ci sarà chi si sentirà più a suo agio di fronte a differenti spiegazioni della vita, della morte, dell’essere umano e di Dio. Tutto sarà compreso e tollerato, ma nulla potrà estrapolare l’esperienza dello spirito dalle cellule e dal DNA di chi l’ha vissuta. ..e, sicuramente, presto o tardi, quell’esperienza porterà frutto, estrarrà significati, offrirà tesoro.
Grazie, senza tempo e spazio, ai miei compagni di viaggio e agli spiriti che hanno sostenuto e sostengono questa nostra esperienza; grazie, senza tempo e spazio, ad ognuna delle persone che ci ha suggerito e che ha sostenuto concretamente questa nostra esperienza. Grazie a chi, molto accanto alla mia pelle, ora, accoglie parti nuove, a volte difficilmente integrabili o comprensibili, con amore e pazienza.